Forse è giunto il momento di disegnare l’organizzazione liquida (1.3)
«Un’organizzazione è un insieme di scelte in cerca di problemi, di questioni e opinioni in cerca di situazioni decisionali in cui potrebbero essere ventilate, di soluzioni in cerca di problemi di cui potrebbero essere la risposta e … di decisori in cerca di lavoro».
Cohen, G. March e P. Olsen
Va detto che il management, come il motore a combustione ha cessato di evolvere da diverso tempo.
Ti ricordi le innovazioni nel management negli ultimi cinquanta anni? Prova a raffrontarle con quelle della tecnologia?
Paradossalmente, ma non troppo, la decantata “disciplina manageriale”, dove praticata, ha ridotto l’adattabilità delle organizzazioni agli stimoli esterni: in un certo qual modo siamo prigionieri dei nostri stessi paradigmi.
Il contributo di Taylor nella manifattura, quindi in quello del management è comprovato e idealizzato da oltre cento anni. Tra il 1890 e il 1858 l’input industriale americano per ora lavorata è aumentato di cinque volte e da allora è cresciuto ancora, poi ha iniziato negli ultimi anni a decrescere nel mondo industrializzato, in particolare nel manifatturiero per quei settori a basso contenuto tecnologico. Ma purtroppo, l’aumento della produttività nella produzione, dove si è registrato, ha comportato anche un aumento della burocrazia organizzativa (job description, obiettivi, routine standardizzate, etc.) che a sua volta ha intaccato la stessa produttività generale. Ne parleremo anche più avanti nel capitolo 5.3.
Ford diceva: «Perché se ho bisogno di un paio di braccia, mi ritrovo attaccato anche un cervello?».
Il modello tayloristico e le sue evoluzioni o variazioni è basato sul processo fisico (efficienza produttiva, valida nei mercati di massa dove tira la domanda), ma non sulla persona!
I manager spesso sono lontani dalla ferita sanguinante della necessità di cambiamento, per percepire consapevolmente i rischi del non farlo: spesso in assenza di una prova schiacciante è improbabile che si dia ascolto ai segnali deboli che arrivano dalla periferia dell’azienda e da chi sta in trincea.
Non esiste una organizzazione stabile a priori: sono i problemi o le opportunità che attivano le connessioni tra le risorse, le persone, i sistemi.
L’organizzazione è il luogo non luogo dove le persone interagiscono tra loro o mediante le tecnologie, sulla base di coppie instabili di problemi e possibili soluzioni in modo spesso non lineare. Tentare di ingessare le cose con rigidi regolamenti, stupide procedure, è come togliere il sangue ad un organismo.
Perché oggi si discute di organizzazione liquida? Perché riflette la società liquida, dove vi sono identità multiple, legate da interessi comuni ma sempre provvisori, frammentati su diverse tribù (gruppi informali) che dialogano spontaneamente nei vari spazi sociali (se lo desideri troverai approfondimenti nel mio lavoro precedente, “#Social.Media.Mente”).
«Un mondo che chiamo liquido perché come tutti i liquidi non può restare immobile e mantenere il proprio assetto inalterato a lungo».
Z. Bauman
Così nelle imprese le gerarchie, attraversate dal paradigma della rete e dalle indite dinamiche sociali, si rompono e devono lasciare spazio, con tante resistenze, a forme di socialità formali (funzionali) e informali (spontanee) focalizzate su obiettivi, risorse, vincoli, dove la leadership nasce dal riconoscimento attestato direttamente dal team che ne è positivamente influenzato.
Bisogna quindi favorire attraverso lo spazio fisico e quello delle informazioni il coagularsi di competenze e di interessi che siano attraversati dai flussi comunicativi spontanei e continui. La gestione degli spazi fisici, insieme alle tecnologie digitali, diventano l’infrastruttura degli asset di valore dell’organizzazione, dove le soluzioni ai problemi emergono dalla cooperazione e dalla socializzazione tra le persone che sono dentro i flussi comunicativi, in particolare quando sono nella trincea dei processi operativi.
Non a caso si fa riferimento, parlando di auto-organizzazione, alle termiti di Gareth Morgan: costruiscono la loro casa in modo erratico, senza un disegno precostituito. Anche se, a edificio costruito, alcune regole sembrano emergere (altezza, colonne, umidità). Questo equilibrio emerge da un inizio che pare casuale (l’istinto delle termiti), ma il risultato è che l’organizzazione nel suo comportamento d’insieme ci consegna una dinamica allo stesso tempo fluida ed evolutiva: le termiti sono guidate da un senso diffuso della visione, ma non ne sono intrappolate.
Mi ricorda quanto mi raccontava un noto musicista sull’esperienza che si vive durante una “jam session”, una riunione di musicisti che si ritrovano per una performance musicale senza aver concordato in precedenza nulla di preordinato, di solito improvvisando solo su alcuni accordi e tonalità di base.
Insomma si parla di una organizzazione che evolve da un canovaccio (pochi, ma chiari elementi) e dalla condivisione delle conoscenze e degli scopi, poi le forme attuative si costruiscono o si ri-costruiscono quasi spontaneamente senza schemi dettagliati pre-formalizzati, in funzione del modificarsi dei risultati ottenuti e dalla dinamica dei contesti.
Immaginiamo per un attimo quelle piante da decoro sospese a mezzaria in un vaso: hanno un piccolo centro con i rami che cadono verso il basso, simili ad una ragnatela.
Più che un centro forte servono buoni collegamenti tra le parti che abbiano:
- Visione e valori condivisi (scopo).
- Autonomia, chiare responsabilità, rinforzi (cooperazione).
- Flusso costante di risorse tra centro e periferia (allineamento).
- Livello di autonomia nella specificità delle unità periferiche (gestire le differenze).
- Logistica dell’informazione e della conoscenza (condivisione).
Ora la domanda, che come si dice nasce spontanea, è: «Quanto deve essere grande il centro? Come devono essere collegate le ramificazioni?».
Fonte: Gianni Previdi – #SMART MANAGEMENT – 2018 – Scuola di Palo Alto